Il giorno 7 luglio 2005, tra le ore 8:50 e le 9:47 mi trovavo a Londra, a poche centinaia di metri da dove esplose una delle bombe degli attentati di quella giornata. In qualità di Manager gestivo una piccola catena di librerie indipendenti: tre negozi e sedici dipendenti, tutti siti nelle zone vicine alle esplosioni. Tra le 8:50 e le 9:47 di quel giorno, io erano in uno dei negozi, a poche centinaia di metri dall’autobus in Tavistock Square. Praticamente ero dietro l’angolo, e con me c’erano i ragazzi dei quali ero responsabile, e presto ci sarebbero state le persone che in negozio avrebbero cercato riparo, chiesto di usare il telefono, di andare in bagno, di bere un bicchiere d’acqua. Ho visto – prima in strada attraverso la vetrina e poi dentro al negozio – il terrore, la disperata e confusa ma istintiva ricerca di protezione da qualcosa che non credevi possibile, che ancora non credi possibile sebbene tu da quella cosa stia scappando.
Alla fine di quella giornata i ragazzi che lavoravano in libreria erano tutti a casa sani e salvi, con i loro cari.
Ieri ho visto il documentario su Netflix, “Attack on London: Hunting the 7/7 Bombers”. Il titolo del documentario è chiaro, non lascia spazio ad equivoci, ad aspettative di qualcosa di diverso. Eppure, guardandolo, io che ero lì, dietro l’angolo, e ho assistito al terrore, al panico collettivo della folla, e che in quella situazione nel mio piccolo ho dovuto prendere decisioni immediate che riguardavano prima di tutto la vita – e il senso della vita – degli altri, conosciuti e sconosciuti, io penso che questo documentario non riporti praticamente nulla di quella giornata. Lo so, ripeto, il titolo parla chiaro e non c’era da aspettarsi altro.
È che fu una giornata lunghissima, in libreria e in città, e, nonostante gli anni trascorsi, certi giorni mi sembra vicina, dietro l’angolo.
Non servono altre immagini.
Mirfet Piccolo 
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