La difficoltà, che poi spesso diventa un problema, di scrivere romanzi ambientati all’estero (interamente o in gran parte; più pagine estere ci sono e più il problema è esteso: una macchia d’olio che appesantisce e danneggia tutto ciò che incontra) è che chi scrive di quell’estero deve saperne un po’ di più di qualche fatto studiato sulle pagine di altri libri.
Deve conoscerne le tradizioni, le scelte lessicali proprie di quel popolo in quel periodo storico e il ritmo del linguaggio con tutti i suoi modi di dire, tutti i gesti e le posture che lo completano, deve conoscerne le dinamiche relazionali che non sono mica uguali in tutto il mondo; e poi gli odori e i suoni delle strade, la luce a seconda dell’ora del giorno o della sera. È molto difficile scrivere di altri luoghi quando in quei luoghi non ci sei o ci sei stato solo di passaggio, solo per una due tre settimane, ma facciamo anche un mese. Non basta, e infatti la difficoltà diventa, a mio avviso, un grosso problema, e quasi sempre un fallimento la cui ampiezza è pari a quella della macchia d’olio sopracitata.
La cultura di un luogo e delle sue genti è fatta di mille e più particolari che, da una parte, si rivelano nel corso di un tempo medio-lungo e, dall’altra, tu scrittore/scrittrice devi essere pronto a cogliere e ad assimilare a fondo quei mille e più particolari prima di poterli riportare sulla pagina in modo che risultino come minimo verosimili.
Pensare di scrivere di un luogo estero e della sua gente credendo forse che quello scritto verrà letto solo nel paese di chi scrive è quanto meno ingenuo, provincialotto, o gravemente inesatto. I lettori di oggi non sono più quelli di mezzo secolo fa (e comunque anche mezzo secolo fa esistevano le migrazioni, per non parlare poi della possibilità per le opere di varcare i confini nazionali con le traduzioni). Come se, ad esempio, tra i lettori italiani non ci fossero anche lettori di prima e seconda generazione che ben conoscono la cultura e la lingua di provenienza, propria o dei genitori. Questi lettori non sono scemi: in quel che leggeranno, scritto da chi ha il nome in copertina, non riconosceranno la gente e il paese che invece loro sì conoscono davvero, o comunque sicuramente meglio di chi in quel paese non ha alcun legame profondo e ci ha trascorso giusto qualche settimana visitando giusto quei due o tre luoghi utili allo scopo di scriverne un libro. Il romanzo, quindi, non può che essere un romanzo inaffidabile, a volte persino truffaldino (soprattutto quando cerca di compensare l’inaffidabilità facendo leva sull’emotività/tragedia che pretende di narrare), ed è questo il problema. Si sente a ogni pagina. Per me è una questione anche di etica professionale.
Se sulla pagina si mette un personaggio che nasce e vive, che so, nella Bulgaria di Todor Živkov, ma lo si fa pensare, parlare e muovere come se fosse di e a Milano Marittima e per di più alla fine degli anni Novanta, questo non può che essere un personaggio non riuscito.
Ciò che si dovrebbe respingere, quindi, è il richiamo suadente al livellamento, alla bidimensionalità, alla semplificazione estrema, al tema che annulla totalmente l’importanza della modalità in cui quel tema viene esposto sulla pagina, ovvero il “ma sì, tanto sono solo dettagli”.
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