La scrittura, per me, non è mai stata un esercizio di chiusura, non è mai stata la pratica dello scontro. È una postura di osservazione, di studio. Nella scrittura vedo meglio anche quando non trovo tutte le risposte agli interrogativi che mi hanno fatta avvicinare a ciò che da lontano aveva una forma indefinita. È un modo di affrontare la miopia: vedere un po’ meglio le cose, anche le peggiori, vuol dire attenuare il loro potere di farti del male.
La scrittura, per me, è un disegno fatto con le parole; le mani sono difficilissime da disegnare e non penso sia un caso questo legame tra la scrittura e la complessità del disegno del suo mezzo primario. È la composizione musicale che ho in testa e un’asse di legno può fare le veci di un pianoforte; la musica abita in ogni luogo dove c’è immaginazione. È una scoperta – di qualcosa, e magari di un dialogo con quel qualcosa – sempre possibile perché oltrepassa la paura di inciampare mentre sto nel mondo, ovvero i confini di ogni tipo.
Rifiuto l’identitarismo di ogni genere. La mia scrittura non ha la forma e l’inclinazione di un’arma puntata su chi è diverso da me anche se il diverso da me mi sta offendendo e strattonando, e la sua ragione d’essere è marcare il mio essere altro e lì costringermi in confini sempre più stretti e spinosi per continuare a colpirmi. L’arma e il confine sono la misura dell’altro, non della mia scrittura che per essere ciò che è ha bisogno di continuare a muoversi liberamente tra le persone.
La violenza non ha in pugno la mia scrittura.
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