Gli altri vedono qualche foto di me con i capelli al vento e Zelda al mio fianco. Io guardo le foto che Facebook mi ripropone e vedo il ricordo di un viaggio molto bello fatto con mio marito e mia figlia, e ovviamente con Zelda. In queste foto vedo anche di aver trascorso mazza giornata in giro per Berlino da sola, di avere cioè, un giorno di quella vacanza, appositamente allungato di molto la strada che mi avrebbe poi portata a trascorrere un paio di ore con Faruk Šehić. Mi è sempre piaciuto andare in giro da sola per le città, sedere per il tempo di qualche fermata sui mezzi pubblici, fingere di esserne anch’io un’abitante: anche se è immaginazione che dura poco, mi dà da sempre la sensazione di libertà e che potrei benissimo ricominciare a vivere in altri luoghi. Mi basta mezza giornata così per stare bene, per sentirmi libera prima di provare il desiderio di tornare dove so che c’è qualcuno che mi sta aspettando. Quel giorno a Berlino io e Faruk abbiamo bevuto un caffè insieme e attorno a noi c’era gente che andava e veniva, e c’erano i rumori di una città che stava cambiando ancora una volta.
Incontrai la scrittura di Faruk prima della pandemia; fu per caso come spesso accade con le cose, belle e meno belle. Certe cose accadono e basta, o non accadono per niente e allora tu non puoi fare altro che lasciarle libere di andare altrove. La incontrai per la prima volta grazie a una traduzione di Ginevra Pugliese che un giorno vidi scorrere sullo schermo del mio smartphone tra notizie tragiche mischiate a immagini innocue e irrilevanti. Con la poesia di Faruk fu attaccamento immediato, istintivo. Iniziai a cercarla ovunque su internet, iniziai a scavare come fanno i cani quando con le loro zampe scavano sul letto o nella cuccia: nel loro DNA c’è il comportamento dei lupi quando scavano nel terreno per ripulirlo e marcarlo, insomma per preparare il luogo ben circoscritto dove finalmente potranno riposare almeno per un po’. Sarà il loro giaciglio, sarà casa temporanea.
Lessi molte volte “compongo l’inventario della solitudine” (sastavljam inventar samoće) prima di trovare il coraggio di scrivere a Faruk in quello che una volta si chiamava Twitter. Sarajevo è anche dove mio fratello conobbe l’amore più grande della sua breve vita, ma non è di questo che voglio parlare, però non posso non dirlo, ricordarlo. La scrittura è un lungo ricordo che assume infinite forme ciascuna con i suoi punti di luce e le sue ombre.
Non conoscevo nulla della lingua di Faruk ma volevo parlare con lui della solitudine, di quella solitudine della quale lui aveva scritto così bene. La lingua originaria di quelle poesie avrei iniziato a studiarla da lì a qualche settimana. Volevo dirgli, e infatti gli dissi – con il nostro inglese che fu lingua di contatto tra viaggiatori in una terra di mezzo e che da quel momento in poi avremmo usato per anni – della solitudine che per me è una crepa che scava dentro di te e solo tu la vedi ovvero ne senti la sottile potenza e il percorso imprevedibile mentre sta contaminando i tuoi pensieri in una giornata altrimenti carica di luce; la senti attraversare e appesantire la tua carne già stanca, attaccarsi ai tuoi muscoli che lo scorrere delle stagioni hanno reso flaccidi, la senti fare ciò che vuole con le tue ossa non più dense e non chiede mai scusa anche se ogni tanto ti sembra che dica Questa è la mia natura io non sono che questo.
Quel giorno a Berlino io e Faruk ci siamo incontrati di persona per la prima volta dopo anni dalla nostra prima conversazione. La reciprocità non è mai una certezza assoluta, ma a me, per tutto il tempo del nostro stare insieme, poco più di due ore, a me è sembrato di conoscerlo da una vita anche se era stata una vita parallela, e gli amici di lunga data non hanno bisogno di tante parole per dirsi di quelle cose che nella vita ti accadono e basta e tu non puoi fare altro che affrontarle ogni giorno al meglio delle tue capacità, e ogni tanto cercare un po’ di riposo come fanno i cani.
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Qui: Dove si può leggere la poesia sastavljam inventar samoće e soprattutto ascoltarla dalla voce di Faruk.
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