Su mio padre, su di me [#18]

Sono stata una ragazzina arrabbiata con mio padre e allo stesso tempo non ho fatto altro che cercarlo, e aspettarlo.

Quando mi chiedevano che lavoro facesse mio padre (forse allora più di oggi si chiedeva più del lavoro dei padri che delle madri), io alternavo due risposte a seconda del mio umore: mio padre fa il commerciante, che era una risposta in fondo non poi così distante dalla realtà; mio padre fa il galeotto, era la risposta di quando invece volevo punirlo, dire al mondo quanto ero arrabbiata con lui per aver scelto quella vita fuori dal mio mondo, per avermi lasciata, per non avermi nemmeno dato il suo cognome. Ero una ragazzina sola che guardava i padri delle compagne di classe e desiderava quegli stessi abbracci, quegli stessi “fai attenzione”.
Poi da grande ho capito che la sua vita non fu esattamente una sua scelta, piuttosto una condanna con radici, collettive e individuali, lontane, e che il suo cognome non l’ho avuto perché non ha potuto darmelo, e che morire in quel modo, in galera, non se lo meritava.

Pochi mesi fa sono tornata in possesso di una foto di mio padre. Quando mi è stata data, è stato un dono incredibile: la restituzione di una parte di me e della mia storia. Ho provato una forte emozione, ho pianto. Per tanti anni ho temuto che il mio ricordo del suo viso fosse perduto o peggio, e cioè che fosse rimasto contaminato per sempre dal ricordo del suo viso senza più vita su quel tavolo d’obitorio, e invece quando ho visto la foto ho detto sì, è così che me lo ricordavo. È così, è lui: Giorgio Assefasc è mio padre. E finalmente ho potuto dire a mia figlia eccolo, questo è tuo nonno. Nonno Giorgio.

È l’unica sua foto che ho e la custodisco gelosamente: incorniciata, appesa alla parete vicino alla mia bacheca di lavoro.

Un padre, il mio, avuto a pezzi, a singhiozzi; un rapporto di apparizioni e scomparse improvvise e, alla fine, di un ritorno che non si è mai concrettizzato. È per questo, credo, che ancora oggi ho un grosso problema con le attese e le scomparse improvvise e silenziose, perché per me hanno tutte il sapore di qualcosa che alla fine non arriverà, di qualcosa che cesserà di vivere proprio mentre io lo sto aspettando, come quel giorno della mia attesa di lui – “ti porto fuori a cena”, mi aveva detto al telefono – ma lui, quel giorno della cena che mai fu, lo stavano arrestando e poche ore dopo sarebbe morto.

In fondo sono ancora quella ragazzina che aspetta suo padre e che non sa che mentre lei sta aspettando suo padre, suo padre non arriverà mai più.
E allo stesso tempo sono la donna adulta – e madre di una figlia che oggi festeggia suo padre – che quando scrive al pc ogni tanto alza la testa solo per poterlo guardare in foto e dire una cosa semplice e difficile: papà. Nella mia voce che esce, in quel bisbiglio solitario di quattro lettere, c’è lui e la mia attesa di lui, e c’è tutto il bene che non ci siamo potuti dare. Poi torno a scrivere.

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...