Nel cigolio della porta che si chiudeva alle mie spalle ho sentito un urlo; nelle pareti con l’intonaco qua e là scrostato ho visto unghie che grattavano. Ma non c’era niente di tutto questo, c’ero solo io.
L’ospedale di oggi era un edificio fatiscente e mentre entravo, con la mia cartelletta porta documenti stretta al petto, ho pensato forse questo è un vecchio ospedale psichiatrico, anche se sapevo e so bene che non è così.
Ho aspettato che il tecnico di laboratorio mi dicesse prego signora, si accomodi. Il tecnico di laboratorio aveva gli occhi piccoli e azzurri, la fede all’anulare destro gli andava un po’ stretta. Mi sono seduta e oltre a me, in quella sala, non c’era nessuno. Le sale d’attesa sono scomode per definizione.
La cartelletta nella quale conservo gli esiti degli esami e visite più recenti è la stessa da molti anni: verde chiaro; l’elastico si è allentato ma regge, regge ancora.
Oggi ho provato gratitudine per le cure mediche, e ho provato anche nausea e rifiuto delle stesse, e allora ho sentito anche il senso di colpa per i miei stessi pensieri. Sono quattordici anni che all’ordinaria amministrazione si è aggiunta anche la straordinaria; quattordici anni sono tanti, ho pensato mentre mi rivestivo.
Quando sono uscita ho fotografato il cielo perché la sua bellezza ha messo in pausa i miei pensieri. Due scatti dello stesso cielo e delle stesse nuvole, a pochi secondi di distanza, e quando ho guardato le foto ho visto il cambiamento. Solo pochi secondi.
Sono tornata alla mia auto. Sono tornata con le mie gambe e questo sì che è un bel pensiero anche se è un pensiero stanco. Sono tornata con le mie gambe e con le mie gambe voglio andare a perdermi e a sorridere a Sarajevo.