Sul sito web del Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite è presente il calendario delle cosiddette Giornate Internazionali. Ad oggi sono più di 140 e spaziano dalla Giornata Mondiale Contro il Cancro (4 febbraio) – che cade solo due giorni dopo quelle delle Zone Umide (2 febbraio) – a quelle dei Legumi (10 febbraio), della Posta (9 ottobre), del Tonno (2 maggio) e non mancano neppure la Giornata Mondiale dell’Argan (10 maggio) e quella del Tè (21 maggio). Per la Giornata Internazionale delle Banche, invece, bisogna attendere l’ultimo mese dell’anno (4 dicembre).
La pubblicazione di Senzanome è avvenuta in quella che da calendario è la Giornata Internazionale Contro la Violenza sulle Donne. La data di uscita originariamente pensata non era questa, ma per questioni legate a dinamiche non controllabili è slittata, appunto, fino al 25 novembre.
Se l’intenzione fosse stata quella di programmare l’uscita di Senzanome in una di queste giornate, la più appropriata sarebbe stata la Giornata Mondiale dell’Infanzia (20 novembre), ma anche quella della Giustizia Sociale (20 febbraio), della Felicità (20 marzo), in questo caso negata, o del Diritto di Verità in Relazione a Gravi Violazioni dei Diritti Umani e della Dignità delle Vittime (24 marzo), o quella della Bambine e delle Ragazze (20 ottobre), anche se non perfetta. E a dirla tutta ci sarebbe anche la Giornata Nazionale Contro la Pedofilia e la Pedopornografia (5 maggio): ecco, questa. Quando si dice l’imbarazzo della scelta.
Il sociologo sudafricano Stanley Cohen, nel suo States of Denial: Knowing About Atrocities and Suffering (uno dei testi che ho usato quando ero in fase di ricerca per quello che sarebbe diventato Senzanome), illustra varie forme di negazione, da quelle consapevoli e premeditate portate avanti, ad esempio, dai Governi, a quelle delle quali spesso non ci rendiamo conto ma che fanno parte del nostro quotidiano. La parte che più mi ha interessata è stata quella sulle forme di negazione subdole che ci appartengono: la negazione per la difesa del sé e di un’ideale, quella per eccesso di informazioni, quella per la distanza geografica.
A me sembra che queste Giornate dedicate a fatti tragici non facciano altro che alimentare uno stato di negazione collettiva, stato di negazione che viene trasmesso in diretta grazie ai social. Frasi a effetto (e qui includo anche il giovane hashtag 25novembresempre), cuori spezzati, mai più questo e mai più quello, invadono bacheche, status, stories. Lo alimentano perché sono la nostra illusione di aver agito, di aver davvero contribuito a quella o a quell’altra causa. Ma non è così, non è così neppure se siamo in buona fede. Nella migliore delle ipotesi, schermati dai nostri cellulari diventiamo dei silent bystanders: non agiamo sul concreto, agiamo solo su di noi, sulla messa in sicurezza della nostra coscienza. Nella migliore delle ipotesi, ci auto-inganniamo: se faccio così – queste stories, queste frasi a effetto, questo meme – io proprio io contribuisco alla vittoria del bene sul male.
Moral indignation about a remote place is safe, cheap and uncomplicated. In questo caso il remote place è quella realtà che magari ci fa arrabbiare, ma che è anche (tenuta) lontana da noi e dalla nostra vita di tutti i giorni, o così vogliamo credere perché è una realtà spaventosa e domani è un altro giorno, un’altra giornata contro o a favore di qualcosa. Avanti la prossima, il tempo ciclico e sempre identico di queste giornate non può essere fermato: una ruota panoramica come quelle di certi parchi giochi abbandonati da decenni, e noi, piccoli fantasmi senza importanza la abitiamo; nella nostra seduta tutto sommato comoda, siamo protetti da una sbarra che ancora funziona e che quindi ci consente di non cadere mentre con una mano afferriamo il nostro dispositivo il cui calendario si aggiorna automaticamente, e con l’altra sventoliamo la bandiera della nostra indignazione del giorno. Lunga vita a questa tecnologia che ci salva dalla fatica e dalle complicazioni che si trovano sotto i nostri piedi sospesi in un vuoto che è inebriante, talvolta persino galvanizzante. La ruota panoramica gira velocemente e un po’ vediamo cosa c’è sotto e un poco no, la velocità di rotazione ci priva della possibilità di una visione limpida.
In misura maggiore o minore, in un luogo o in un altro, penso che pochi di noi sfuggano da questo stato di ambiguità tra il vedere e il non-vedere, e allora finiamo per non fare niente di concreto. Non ho una soluzione a quello che per me è, nella migliore delle ipotesi, un mix tra solitudine e isolamento, negazione e disperazione collettiva. Ho solo un’idea che mi muove, e forse in un certo senso mi fa da cinta: opporre resistenza alla giostra e cercare di rimanere a terra, rifiutare l’istantaneità dei pensierini e delle bandiere pronte per l’occasione e salvate nelle memorie espandibili dei nostri telefoni; provare a fare pace con i miei limiti e cercare di agire su ciò che non mi dà pace. Ma alla fine, da terra, mi chiedo cosa faccio io a parte qualche piccola azione quotidiana – coltivare la gentilezza e la comprensione, studiare sempre, educare mia figlia al rispetto degli altri e alla cura di sé stessa, volere bene al mio cane – cosa faccio io oltre a passare la maggior parte del mio tempo sui libri e a scrivere? Forse sono solo un altro genere di bystander.