Questa è la storia di una foto infelice e di una primavera che sarebbe arrivata. In questa foto che mi ritrae da ragazza io non mi riconosco, come del resto nelle foto non mi riconosco praticamente mai. Sono io, una parte di me lo sa, ma non sono io. È un non riconoscimento difettoso.
L’ho ritrovata per caso, questa foto, cercando tutt’altro tra alcune mie vecchie cose. Erano i primi anni duemila. Indosso una maglia marrone con il collo alto ma ampio e morbido, e un paio di pantaloni a coste anch’essi marroni. In quegli anni, negli abiti di colore marrone io mi nascondevo (penso ora, mentre scrivo queste parole), e, a parte un paio di stivaletti, oggi è un colore praticamente assente dal mio guardaroba.
In questa foto la mia testa è leggermente inclinata verso la spalla del ragazzo con il quale stavo in quegli anni. Lui con un braccio mi tiene a sé. Lui è poco in ordine perché si è svegliato da poco; il sole di mezzogiorno – nel giardino della villetta dei suoi genitori – è sulle nostre teste.
Nella foto sorrido. Ciò che la foto non dice è che facevo due lavori mentre lui non ne faceva nessuno e non faceva niente, e che nel poco tempo libero a mia disposizione io chiudevo gli occhi e immaginavo di essere altrove. La foto non dice che ero profondamente infelice e che da lì a poche settimane lo avrei lasciato per sempre. Non dice del fatto che lui, via da quel suo sè, non voleva lasciarmi andare; e quindi non dice della lotta che ne seguì e che al momento di questo scatto io già presagivo sebbene non avessi chiaro in mente il modo in cui l’avrei affrontata.
Da lì a poche settimane per me sarebbe cambiato tutto, per lo più in meglio con il passare degli anni. Passo dopo passo.
Quando l’ho ritrovata, questa foto, lo scarto tra il sorriso che appare e ciò che in realtà camuffava mi ha colpita sulla faccia: com’è possibile? Eppure è stato possibile.
Il tempo dello scatto di una foto, solo un attimo. Un attimo bugiardo e in formato tascabile.