Comincio a chiedermi se alcune delle cose che sto facendo in questi mesi a cavallo tra il vecchio anno e quello appena iniziato abbiano ancora un senso. Il correttore automatico, a suo modo, mi risponde di no.
Ieri notte mi sono rigirata nel letto per almeno un’ora e un po’ ho pensato a questo senso smarrito e un po’ alla serie Netflix che avevo da poco finito di vedere. Lo dico subito: non ho ancora trovato alcuna connessione particolarmente significativa tra le due cose, ma nella mia testa sono state presenti in modo curiosamente alternato.
La serie è The Woods (o Estate di morte), regia polacca, una stagione e sei puntate. A circa metà della prima puntata ho pensato a due cose: la prima, che non era poi così male; la seconda, che il procuratore Pawel Kopinski assomiglia molto a una persona che ho visto solo in foto, su Twitter. Questa persona la chiamerò L. Insomma, ho pensato caspita, nonostante Pawel Kopinski non abbia la barba scura come quella di L., lui e L. si assomigliano, soprattutto in alcune scene, e soprattutto quando questo procuratore indossa gli occhiali.
Io e L. ci seguiamo reciprocamente sui social da anni e allora, mentre guardavo la prima puntata e notavo questa somiglianza, ho pensato di mandargli un messaggio per dirglielo. Poi la prima puntata è finita senza alcun messaggio inviato.
Dicevo della notte appena trascorsa: proprio non riuscivo a stare ferma, a trovare sonno. Avevo a tratti troppo caldo e a tratti freddo, e il pensiero della perdita di senso di ciò che si fa (l’agire che dapprima è mosso da un senso e magari anche da una finalità specifica, ma poi il senso evapora e l’agire assume le sembianze di un moncone) non riuscivo a togliermelo di dosso come invece avevo appena fatto con il piumone. La sensazione di perdita rimaneva tentacolosa e pesante sul mio torace. E mi sono detta che avrei fatto ciò che il correttore mi ha suggerito quando, all’inizio di questo pensiero lampo, ha cambiato “chiedersi” con “chiudersi”. Chiudere la baracca di un progetto che sto portando avanti da mesi. Sì, ma poi?
E poi, senza alcun filo logico chiaro, con la testa ben sotto il cuscino e il piumone quasi ai miei piedi, mi sono resa conto che per tutte e sei le puntate della serie mi ero ripetuta la stessa cosa – caspita quanto assomiglia a L., adesso gli mando un messaggio – senza avere mai, alla fine, inviato alcunché. E ho iniziato a chiedermi perché. Era solo un messaggio, una cosa da niente, un pensiero leggero che avrebbe potuto al massimo far sorridere due persone, me e L.. E invece l’ho tenuto per me, ho lasciato che diventasse una compagnia solitaria per sei puntate. Perché non l’ho condiviso con il diretto interessato?
E così mi sono ricoperta con il piumone, ho tirato fuori la testa dal suo nascondiglio, e mi sono detta che ero stanca dei tentativi e di una realtà incontrollabile che svuota le cose del loro senso originario. Lascio. Sì, ma poi?
Chiuderò la baracca solo quando avrò finito ciò che ho iniziato, e forse questo è l’unico senso che mi è rimasto – il completare, ripulire il piatto anche se è amaro. E ho di nuovo scalciato via il piumone, e ho di nuovo messo la testa sotto al cuscino dove ho di nuovo trovato tutte le contraddizioni e tutti i miei errori e tutte le cose che forse avrei dovuto fare prima come se in quel prima vi fosse anche la garanzia di una qualità migliore o addirittura di riuscita, e poi l’ho tirata fuori, la mia testa di ricci arruffati, e mi sono girata su un fianco e poi sull’altro e domani scrivo a L, mi sono detta. Ma forse L. lo sa già che assomiglia a Pawel Kopinski, ho pensato, e infine, e finalmente, mi sono addormentata.