Ieri sera un uomo di 72 anni che non conosco ha voluto farmi sapere due cose. La prima: sia lui sia la sua compagna stanno leggendo Senzanome e mi fanno i complimenti. La seconda (e per me più importante): per lui la lettura si sta rivelando più difficile perché il romanzo gli ricorda cose della sua infanzia. “Solo chi ha vissuto certe cose capisce davvero”. Ripeto: un uomo di 72 anni. Avevo già pianificato di scrivere, sul mio sito, un inserto a tema maschi vs femmine, ma ora, e cioè nelle prossime settimane, lo farò con rinnovata convinzione.
Ed è così, con le parole qui sopra, che ieri pensavo avrei concluso un possibile post; sono andata a dormire pensando che non ci fosse altro da aggiungere. E invece non è così. Sento l’urgenza di aggiungere delle considerazioni ulteriori anche perché questa è la terza volta che una persona mi comunica la sua difficoltà personale, intima (senza alcun bisogno di scendere in dettagli).
Ricordo molto bene il momento in cui io e Giulia Caminito – che per Perrone ha scelto questo romanzo e ne è stata l’editor (prima non l’ho mai scritto apertamente per timore di passare per approfittatrice di fama altrui, ma ora è giunto il momento) – abbiamo parlato del possibile tempo lungo e delicato necessario a quelle persone adulte che sono state vittime di abuso sessuale in età infantile. Sia nella scrittura del romanzo da parte mia, sia nel lavoro in fase di editing fatto con Giulia, questo risvolto così delicato è stato tenuto in grande considerazione e personalmente mi è molto caro.
Io voglio dire a queste persone, a chiunque per la propria esperienza personale si ritrovi in un romanzo che affronta il tema della pedofilia, che lo so, lo capisco. So che è difficile e non è colpa vostra. Se non ve la sentite di leggerlo fino in fondo, o nemmeno di iniziarlo perché non è il momento, va bene, si vede che per voi non è ancora il momento. Non c’è mancanza, c’è invece un dolore molto profondo e che è molto complesso bypassare, e tale complessità dice qualcosa di importante del danno che è stato fatto.
A chi non è stato vittima di abuso sessuale in età infantile, vorrei chiedere per favore di cancellare dal suo vocabolario la parola “coraggio” che di solito viene usata per descrivere chi testimonia apertamente di essere sopravvissuta/o. Il coraggio – che, seguendo questa logica, mancherebbe a chi non dice, e quindi in fondo chi non dice è un po’ codardo/a, una persona manchevole a suo modo e quindi colpevole, ancora, di qualcosa, ed essendo colpevole non merita altrettanta attenzione –, il coraggio non c’entra niente.
Se per le persone sopravvissute è difficile persino leggere delle parole di un romanzo nel quale si è tenuto conto di questa possibile problematicità, io vi chiedo per favore di fare lo sforzo di domandarvi il perché di questa difficoltà, e vi chiedo di immaginare quale esperienza devastante possa essere tradurre in parole proprie, davanti a persone sconosciute o anche conosciute, questo vissuto. Sarebbe come chiedere a una persona che improvvisamente e non per sua volontà si è trovata a vivere senza una gamba e con una protesi di pasta frolla, o addirittura senza protesi, di saltare in alto, più in alto, e di farlo davanti a tutti in modo che questi tutti possano applaudirla e sentirsi ispirati grazie al suo dolore. Se parlare viene ridotto a una questione di mero coraggio – e quindi si ignora, per cominciare, la funzionalità di alcune aree specifiche del cervello che sono state compromesse – la società diventa organo giudicante delle vittime e fallisce nel suo importante ruolo di membrava protettiva e curativa.
Appropriarsi della capacità di esprimere un vissuto di questo tipo richiede l’aiuto di professionisti, e molto tempo e molto dolore, e spesso comunque non si riesce. Ti taglia le gambe, ti taglia la lingua. Chi è sopravvissuto è stato privato sin dall’infanzia anche della possibilità della parola, del verbo che nasce e cresce e diventa forte fino a chiamarsi identità, nome proprio. Il coraggio non c’entra niente.