La persona che più di tutte tiene a un libro specifico è sempre e solo la persona che lo ha scritto. Nella migliore delle ipotesi, questa persona lo vedrà andare nel mondo, e una volta nel mondo continuerà a difenderlo con le unghie e con i denti, e lo farà per lo più da sola. La verità è che, in fondo in fondo, sotto i lustrini c’è tanta solitudine.
La solitudine di chi scrive non è romantica, non è amorevole, non è fruttuosa. È un inganno. Pensavo a questo mentre il cardiologo, oggi, mi visitava: sono in un ospedale che ha fatto della cura del cuore la sua eccellenza, e la solitudine di chi scrive e ha scritto non si può pesare, ma batte.
Il medico era gentile, ma quando mi ha chiesto di eventuali infarti in famiglia io gli ho detto mio padre è morto di infarto a 50 anni e non gli ho detto sa, dottore, a dirla tutta l’infarto glielo hanno fatto venire le guardie a suon di botte e il suo cadavere era pestato, indifeso, quasi irriconoscibile anche se io l’ho riconosciuto. Ero davanti a lui, e lui finalmente aveva sua figlia davanti a sé ma non poteva vederla. La carne lacerata batte. Un corpo morto continua a vivere, ancora un po’: il cuore si ferma ma il resto va avanti, è che prende un’altra strada, imbocca una deviazione non calcolata dal futuro vivo per andare invece verso lo spegnimento totale di ogni cellula. C’è un cuore dentro ogni cellula.
E mentre il dottore controllava ciò che lui aveva scritto nel referto, e nello studio c’era silenzio, ho pensato a questa cosa della solitudine spogliata dai lustrini e mi sono sentita un corpo portatore di una deviazione non calcolata.
Sono uscita dallo studio e dall’ospedale; ho raggiunto la mia auto e non ho messo subito in moto. La chiave penzolava dal blocchetto d’accensione senza far rumore. Ho aspettato, ho desiderato sentire ancora la voce di mio padre che mi diceva allora, come sta la mia figlia preferita? Papà, gli avrei risposto, senti come batte.