6. Quei “bambini isterici”

Ciò che segue non ha pretesa di completezza né di chissà quale autorevolezza. Io sono solo una persona laureata in Letteratura Inglese, e una scrittrice che compie sempre ricerche preparatorie più o meno estese sul soggetto del quale intende scrivere. Questo breve excursus ha come unica finalità quella di ribadire, nero su bianco, che non vi è nulla di nuovo nell’interesse verso gli effetti a breve e a lungo termine dell’abuso sessuale in età infantile. Il lavoro di ricerca, infatti, inizia già nell’Ottocento.

Il tema dell’abuso fisico, e anche sessuale, sui minori fu al centro della ricerca di Auguste Ambroise Tardieu (1818-1879), medico francese al quale si deve quello che è considerato come il primo trattato sulla pedofilia (I delitti di libidine) e sugli abusi fisici anche non sessuali (Studio medico-legale sulle sevizie esercitate sui bambini). Sebbene i suoi studi si siano ben presto dimostrati inficiati da vari pregiudizi, ad esempio sull’omosessualità che lui considerava, in poche parole, l’origine di tutti i mali, rimane il fatto che gli effetti dell’abuso sui minori erano già allora oggetto di indagine.

Un importante passo avanti lo si deve a Pierre Briquet (1796-1881), medico francese, autore del noto Traité clinique et thérapeutique de l’Hystérie (1895) che fu il primo, nel 1859, a ipotizzare una connessione tra isteria ed eventi traumatici. Da uno studio da lui condotto su 501 “bambini isterici” (la somatizzazione era uno dei sintomi), per 381 di loro stabilì che l’origine del disturbo era da ricercare negli eventi traumatici della loro vita.

Un altro medico francese, il neurologo Jean Martin Charcot (1825-1893), nel 1887 fu il primo a descrivere le memorie traumatiche come “parassiti della mente”. Descrisse come lo shock nervoso dovuto a traumi era in grado portare i suoi pazienti a una condizione di paralisi, introducendo così il concetto di “paralisi isterico-traumatica”.

Di grande importanza è stato Pierre Janet (1859-1947), neurologo, psichiatra e filosofo, che per primo descrisse la dissociazione come difesa estrema e chiave di comprensione dell’evento traumatico, e tra gli eventi traumatici in grado di scatenare un effetto dissociativo elencò lo stupro, l’incesto e l’abuso fisico nell’infanzia, insieme all’essere testimoni di una morte violenta. Nei primi anni del 900, inoltre, stabilì una connessione tra l’essere stati vittima di negligenza generalizzata in età infantile (con o senza altre esperienze traumatiche) con lo sviluppo di disturbi mentali.

Lo studio degli effetti di eventi traumatici sulla psiche dell’essere umano ha poi subito un considerevole spostamento verso le zone di guerra, sia della Prima come della Seconda guerra mondiale. Oggi conosciamo tutti, grazie anche a certi film, quello che originariamente venne chiamato “shell shock”: l’immagine del soldato immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto. Bisognerà attendere gli anni 60 e soprattutto 70 del Novecento per avere l’attenzione rivolta nuovamente ai traumi prodotti dall’abuso fisico e sessuale.

Nel 1962 Kempe e Helfer evidenziano la connessione tra l’aggressione fisica del caregiver e danni strutturali sul bambino, introducendo così il concetto di “sindrome del bambino battuto”.

Ann Wolbert Burgess e Lynda Lytle Holmstrom descrivono, nel 1974, i flashback come sintomo della “rape trauma syndrome”, e annotano somiglianze tra ciò che vedono nelle donne vittime di violenza sessuale e quanto osservato nei veterani traumatizzati dalla guerra.

Nel 1974 Sara Haley – figlia di un veterano di guerra affetto da “neurosi da combattimento”, e allo stesso tempo vittima di incesto paterno – indagò per prima anche la relazione tra l’ascolto di atti atroci raccontati dai pazienti ed eventuali effetti traumatici sul terapista.

Nel 1981 la psichiatra Judith Herman inizia a documentare la diffusione dell’abuso sessuale a danno dei bambini e l’effetto devastante che causa.

La ricerca va avanti negli anni 90 e da allora non si è più fermata. In particolare, ricordo qui i nomi di Putnam, Silverman e Widom (alle cui ricerche longitudinali, così come al contributo delle neuroscienze e all’applicazione del neuroimaging, dedicherò degli inserti a parte), ma anche Herrenkohl, Greenfeld, Salter, van der Kolk, Felitti, Anda, ma ce ne sono moltissimi altri.

Come dicevo in apertura, questo rapido excursus ha come obiettivo principale quello di chiarire che lo studio del danno da abuso sessuale sui minori non è affatto recente, non risponde ad alcuna moda contemporanea.

Grazie anche alle testimonianze dei veterani di guerra e alla trasposizione cinematografica e letteraria delle stesse, oggi sappiamo più o meno tutti che la guerra produce effetti a lungo termine sulla psiche dell’essere umano e che tali effetti possono avere un impatto devastante nella vita del ex-soldato; dalla tv e dalla letteratura abbiamo più o meno tutti appreso, ad esempio, dell’esistenza del disturbo da stress post-traumatico. Se la relazione tra evento traumatico della guerra e stato psichico del ex soldato a guerra finita è ormai conoscenza diffusa, non si può certo dire lo stesso di eventi quali l’aggressione sessuale, a maggior ragione se si tratta di bambini, ovvero di soggetti ancora in fase di sviluppo a partire dalle connessioni cerebrali.

Se lo studio sugli effetti a lungo termine dell’abuso sessuali a danno di soggetti minori non è recente, perché non vi è una conoscenza diffusa dei risultati di questi studi? Perché, ad esempio, si continua a derubricare il silenzio di chi non denuncia come a una mera mancanza di coraggio? Perché, quando si parla di vittime, si riduce tutto a un “chi è stato vittima diventerà carnefice” e non si parla invece di tutti gli altri e, ci dice la ricerca, più probabili effetti concreti a breve e a lungo termine? Perché è così difficile vedere la connessione tra trauma in età infantile, salute mentale dell’adulto sopravvissuto, funzionamento del suo corpo e ricadute anche sulla società?

Ipotizzo una risposta. Nella guerra di armi che vediamo riprodotta nei film, e che così ampiamente ha da sempre trovato spazio anche nella letteratura, il buono e il cattivo sono per lo più chiaramente identificabili, e soprattutto non sono vicini a noi, né sul piano geografico né su quello temporale. La pedofilia, invece, è vicina a noi nella nostra quotidianità, è nelle nostre case, nel circuito familiare riunito attorno alla tavola nei giorni di festa, è nei centri educativi ai quali affidiamo i nostri figli. L’agire subdolo e manipolatorio del pedofilo, che è sempre uno di noi e veste e parla come o meglio di noi, ci chiama in causa tutti e forse, nella migliore delle ipotesi, qui troviamo una risposta: per una forma di negazione come difesa personale da qualcosa di difficilmente sostenibile – l’astuzia del predatore, la nostra fallibilità come osservatori, il dolore della vittima che nessuno vuole mai davvero vicino – l’essere umano cerca sempre nuovi modi per metterla da parte, per non vederla. Come a dire: se copro, io non vedo, e se io non vedo allora non esiste: il bu-bu-settete degli adulti.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...