Ieri la luce dell’ospedale era verde come l’acqua di un fiume che ho visto solo in fotografia. Davanti alla dottoressa, per gran parte del tempo ho pensato al piacere che provo quando dalla mia bocca esce il suono delle parole “lijepo” e “jabuku” e “muškarac” ma davanti a lei non ho potuto dirle. Sto studiando il bosniaco, le ho detto, senza dirle che la parola “verde” la smarrisco sempre nella mia memoria; quella che ho ricordato sin da subito, invece, è stata “narandžasta”. Lei mi ha sorriso e chiesto: viene da lì? Nella corsia dell’ospedale c’era la quiete di chi si vuole riposare senza per questo tradire le proprie ammaccature. L’isterismo di questi giorni era un fatto del mondo rimasto fuori. C’era pace, posso dire di essere stata bene in quel luogo di permanenza forzata.
Sono tornata a casa con la voglia di ridere e di fare l’amore e di imparare parole nuove. Le parole sono la mia casa senza cemento. A cena ho bevuto vino bianco e i miei 42kg e mezzo di peso mi hanno detto fermati a due bicchieri, ma io non li ho ascoltati e ne ho bevuto uno di troppo. Così ho rovesciato un sacco di parole che erano belle ma, penso ora alle 4:57 del mattino, folli. Life is crazy. E se la vita è arte e le parole sono la mia casa, allora io sono fottutamente satura. Ci sono fuoriuscite che diventano percorsi scivolosi. Io non tampono, io non asciugo, io non raccolgo. Nella notte ho sognato quattro foto a colori. In tutte e quattro c’era un uomo catturato mentre seduto su di una panchina milanese leggeva Sartre. Nel sogno ho pensato: quest’uomo è un pescatore di quel fiume verde, e ho pensato alle due azioni:
Il corpo fermo a pescare i pesci | Il corpo fermo a pescare le parole.
Nelle foto del sogno era quasi primavera, e l’uomo seduto a leggere a un certo punto si è mosso e io l’ho visto camminare mentre tutto il resto dell’immagine rimaneva immobile. L’uomo camminava con le spalle un po’ curve e il passo claudicante come lo è il mio da dieci anni e io con lo sguardo l’ho seguito fino a vederlo scomparire. ©
[febbraio, 2020]