Sul mio prossimo romanzo

La lettura è sempre stata, per me, il miglior mezzo per andare lontano, per mera curiosità o per fuggire da ciò che avevo attorno e che non mi piaceva ma che non avevo il potere di cambiare. Non credo di aver mai cercato me stessa nei romanzi che leggevo e che leggo, anche se, inevitabilmente, in alcuni trovavo e trovo qualcosa che appartiene anche a me e che, quindi, in me vibra e a volte fa anche un po’ male senza che questo mi allontani, anzi.

Vivo la scrittura come una postazione dalla quale poter osservare le piccole e grandi cose della quotidianità. A volte a muovermi è il bisogno di capire, di trovare risposte a interrogativi, e altre volte uso la scrittura come una lente di ingrandimento e non mi interessa capire ma solo osservare e lasciarmi travolgere dalla stupore prodotto da ciò che dell’essere umano non capisco.

La dimensione dell’identità primaria e da affermare con forza che oggigiorno occupa tanti discorsi e scaffali non è la mia dimensione, né come lettrice né, soprattutto, come scrittrice. Io oggi potrei essere definita e presentata, a seconda dell’occasione, come: afrodiscendente, donna, madre, malata cronica e disabile, sorella di, figlia di, e altro ancora. Potrei scrivere un libro di dolore spendibile per ciascuna di queste categorie, ma io non solo non mi riconosco in queste caselle dai confini così facilmente tracciabili, ma le temo proprio, perché ciò che può essere facilmente tracciato può essere altrettanto facilmente intrappolato. Le caselle, per me, sono trappole.

Io mi percepisco come un essere vivente contaminato da una moltitudine di persone ed esperienze, alcune belle e altre no, e non mi voglio scomporre, spezzettare, delimitare. Gli unici confini che mi piacciono sono quelli che posso oltrepassare senza rischiare di essere assalita da sbandieratori e sbandieratrici di purezza, di marcature.

Sono una lettrice che nei romanzi degli altri cerca la cura del dettaglio e la poesia nella prosa, la musicalità delle parole, l’artigianato. Cerco il racconto sublime di una mela e del suo verme, o di una matita che cade dalla mano di un anziano. Il percorso e tutte le sue fermate, il suono e tutte le sue vibrazioni.

Sono una scrittrice attratta più dalle vite degli altri (e dalla possibilità di stabilire, tramite la scrittura, un contatto) che dalla propria. La mia vita c’è per forza di cose nel modo in cui osservo il mondo, ma non è primaria, non è assoluta. La mia vita vale tanto quanto quella alla quale desidero avvicinarmi. Amo osservare la gente e origliarne i discorsi; passo molto tempo su YouTube a leggere i commenti che le persone lasciano sotto a quelle canzoni che hanno riacceso in loro un ricordo e le relative emozioni; spulcio vecchi forum; guardo nel carrello della spesa che non è il mio e osservo il modo in cui, quel carrello, viene riempito e spinto. Nei luoghi più anonimi e frequentati si possono trovare tracce di vita di persone che non conosciamo, tracce disseminate tra le corsie di un ipermercato o sulle sedie mal ridotte di un ufficio postale.

Amo osservare tutti e anche lasciarmi avvicinare da sconosciuti che hanno solo voglia di parlare con qualcuno, e quest’ultima è una situazione nella quale mi trovo molto spesso. Non so perché, ma mi succede da sempre e io lascio che accada: parlano con me – dei figli diventati grandi, del marito balordo, della moglie deceduta, del cane che avevano da bambini, delle attività che quella mattina hanno fatto al centro diurno -, e poi non le rivedrò mai più. Quando succede è un incanto, ve lo assicuro.

A fine luglio ho consegnato al mio agente (e alla mia agente) un nuovo romanzo. In questo romanzo c’è un protagonista che se esistesse anche nella vita reale potrebbe benissimo essere un mio caro amico, e allora io, questo caro amico, lo abbraccerei molto forte e gli direi: mannaggia a te, ti voglio bene ma mannaggia a te. Prima lo rimprovererei, e poi farei di tutto affinché non si sentisse troppo solo.

Subito dopo questa consegna mi sono impegnata, come co-autrice, in un altro progetto di scrittura, nuovo e faticoso ma dal quale ho imparato tanto.

Sono una scrittrice che, una volta rispettate le consegne, ha detto che si sarebbe presa una pausa di almeno quattro mesi dalla scrittura. Mi riposo, ho detto, leggo e basta. Ci ho provato e non è stata la prima volta, ma dopo due, tre settimane al massimo di inattività immaginativa inizio a contorcermi in una dimensione interiore poco luminosa e decisamente asfissiante.

E quindi eccomi qui: in questi ultimi giorni ho iniziato a lavorare a un nuovo romanzo, e questo romanzo non c’entra nulla con Senzanome, né per contenuti né per stile, e sarà molto diverso anche dal romanzo che ho consegnato a fine luglio e che è anch’esso molto diverso da Senzanome.

Penso a una storia come a un corpo; ogni corpo è unico, e lo stile è un abito fatto su misura. La mia scrittura tenderà sempre a piegarsi alla forma e al suono di tutte le cose che sarò in grado di raggiungere e di osservare da vicino. Là fuori c’è un universo da esplorare ed è meraviglioso poterlo fare.

Questo è l’unico modo in cui io so fare questo mestiere.

[Allegato: un dettaglio della mia bacheca di lavoro. La foto “Il tuffatore” è di Nino Migliori (1951). Questa è stata la mia foto-guida durante tutta la stesura del romanzo che ho consegnato a fine luglio.]

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